Abbiamo bisogno di una benedizione. … Oppure l’abbiamo già ma ce ne siamo dimenticati?
Dal vangelo secondo Luca (Lc 2, 16-21)
In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
La Parola che, mi pare, Dio pronuncia per noi oggi, tra le tante che ci sono nei testi biblici di questa prima messa dell’anno civile 2023 è benedizione.
Nella prima lettura è riportata la cosiddetta “benedizione sacerdotale” sul popolo di Israele, che il Signore ordina a Mosè perché sia trasmessa ad Aronne e i suoi figli (gli “antenati” della classe sacerdotale ebraica; per questo la benedizione si chiama “sacerdotale”). Essa è invocata poi nel salmo. Ed è la Parola fatta carne, Gesù, nato da Maria, la protagonista tanto del brano dell’apostolo Paolo che del Vangelo.
La benedizione di Dio e più in generale la sua Parola, non è solo un dire senza sostanza, un sussurro disperso dal vento. Essa è, fin dall’inizio della Bibbia, un dire che fa, che da’ esistenza: Dio dice e il mondo esiste. Una Parola talmente concreta che, al culmine della storia, si fa carne.
Allora mi pare che, in questo passaggio tra un non semplice 2022 e un incerto e temuto 2023, Dio voglia pronunciare una volta ancora su di noi la Parola di benedizione. Ne abbiamo bisogno: il nostro atteggiamento verso il futuro è soprattutto di paura e di impotenza, le nostre domande e le nostre aspettative nei confronti del nuovo anno sono inquiete … “che cosa può succedere ancora dopo una pandemia globale, una siccità da cui probabilmente non siamo ancora fuori e la guerra?”.
Questo è un tempo in cui si attende con fatalismo un futuro non più amico, quasi in preda a un caos di fronte al quale, spaventati di essere spaventati, ci anestetizziamo con i consumi costruendosi un guscio che ci ripari da quel che accade fuori. Questo è un tempo in cui non si scruta più la storia alla ricerca della volontà di un Dio benevolo e confidente, a cui domandare di ricordarsi del popolo che si è scelto e dell’umanità che ha creato. In questo tempo sentiamo di aver bisogno che Dio ci ricordi la Sua benedizione su di noi.
“Benedire” significa trasmettere la propria capacità generativa ad un altro rendendolo fecondo. L’azione del benedire è unica, si può dare cioè una sola volta nella vita e non può più essere revocata. In Genesi 27 Giacobbe, complice la madre, inganna il padre Isacco e ruba la sua benedizione che era destinata invece a Esaù suo fratello maggiore. Esaù, appena se ne rende conto, corre dal padre e implora per sé la benedizione, ma il padre Isacco non può fare nulla perché benedicendo il figlio minore, che per questo resterà benedetto per sempre (v. 33), si è svuotato definitivamente di tutta la sua capacità generativa. Con buona pace dei cattolici che continuano a chiedere benedizioni di muri di case, indumenti, oggetti … Quando Dio “benedice” lo fa una sola volta per sempre e la sua benedizione non ha scadenza come le mozzarelle! Il problema allora non è “continuare a chiedere delle benedizioni dal prete”, ma “vivere da benedetti”. Quando nella Liturgia il presbitero “benedice” il popolo, non duplica, non moltiplica, ma invita a fare memoria dell’unica, originaria e irrevocabile benedizione della Creazione e del Battesimo. Semmai è come se dicesse «Dio ci ha benedetti una volta per tutte in Cristo. Ora andiamo e viviamo da benedetti».
Don Augusto Fontana (prete della diocesi di Parma)
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